(parte 1)
Qualche mito da sfatare riguardo gli apparecchi acustici
Quando si parla di apparecchi acustici tutto si riduce alla frase “Sono troppo costosi, troppo vistosi, troppo grandi”. Siamo letteralmente prevenuti nei confronti di questi dispositivi medici. Tuttavia, negli ultimi anni, i progressi tecnologici e digitali li hanno completamente trasformati, sia nel funzionamento che nell’aspetto. Vediamo insieme alcuni miti da sfatare sugli apparecchi acustici…
1. Gli apparecchi acustici sono “cose per vecchi”
Nell’immaginario collettivo gli apparecchi acustici sono visti come dispositivi utilizzati solo da persone di una certa fascia di età. Questo non è vero, soprattutto negli ultimi anni, dove uno stile di vita più rumoroso, con maggiori input sonori e scarsa protezione, hanno portato ad un abbassamento dell’età media in cui insorgono i primi problemi di udito. Secondo l’OMS, circa 1 milione di persone tra i 12 e i 35 anni sono a rischio sordità, e questo perché molto spesso non si adottano comportamenti adeguati per prevenire eventuali perdite uditive. I moderni apparecchi acustici strizzano l’occhio proprio a questa esigenza di un target più giovane e “connesso”, con design particolare ed eleganti e capacità di connessione con bluetooth e smartphon.
2. Gli apparecchi acustici sono utili solamente in caso di una forte perdita uditiva
Questa convinzione è tanto sbagliata quanto dannosa. Un calo uditivo è un processo lento e progressivo, e solo in pochissime eccezioni si verifica dall’oggi al domani. Accorgersene e decidere di porvi rimedio significa prevenire peggioramenti e, soprattutto, avere probabilità molto più alte di un recupero completo con gli apparecchi acustici. Inoltre, con il calo uditivo sopraggiungono altre problematiche correlate (declino cognitivo, isolamento sociale, depressione…): un tempestivo intervento può evitare tutto ciò.
3. Gli apparecchi acustici sono vistosi, ingombranti e brutti
Una volta, forse. Gli apparecchi acustici moderni in realtà si sono davvero trasformati, e quei “cornetti” beige sono solo un lontano ricordo. Il settore audiologico ha compiuto progressi eccezionali: la ricerca di un design elegante, la scelta di colori e rifiniture particolari e metallizzate ha trasformato gli apparecchi in piccoli e veri accessori di moda. Anche le dimensioni sono notevolmente diminuite, diventando mini e più ergonomiche, fino ad arrivare ad apparecchi acustici praticamente invisibili!
(…segue parte 2)
Piccoli, grandi aiutanti a 4 zampe!
Dolce, premuroso, fedele, sempre pronto a starti accanto: il cane è tutto questo e molto altro. Non a caso viene definito il migliore amico dell’uomo e lo è a tutti gli effetti. Ma il cane sa essere molto di più: sono sempre maggiori infatti i centri di addestramento dei service dogs, ma più precisamente degli Hearing Dogs, i cani che vivono per aiutare il proprio padrone con disabilità.
Un telefono che squilla. Il citofono che suona. Il timer del forno che avvisa la cottura ultimata. La sveglia che ogni mattina trilla puntuale. Sono solamene quattro esempi di suoni banalissimi e quotidiani che siamo abituati a sentire e a sottovalutare. Ma per una persona con perdita uditiva percepire e riconoscere questi segnali non è per nulla un fatto scontato.
Nasce da qui l’idea dell’hearing dog. Ma di preciso, cos’è? L’hearing dog rientra nella – fortunatamente – vasta schiera dei service dog, cani addestrati specificatamente per convivere e aiutare nella proprio quotidianità persone con disabilità. I cani guida sono forse i portavoce più famosi di questo amorevole esercito a quattro zampe, ma da qualche anno a questa parte si stanno facendo conoscere sempre di più anche gli hearing dogs, cani addestrati per offrire assistenza specifica alle persone sorde o con capacità uditive ridotte.
Il fenomeno si diffonde velocemente prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti e in Australia: in Italia questa è una realtà ancora poco conosciuta, ma grazie alla prima associazione nata a Vicenza sta finalmente prendendo piede anche nel nostro Paese. In Gran Bretagna gli hearing dogs sono facilmente riconoscibili perché indossano una “divisa” speciale: un collare e un guinzaglio arancione.
Il loro principale compito è quello di riconoscere i suoni al posto dei loro umani, che non riescono a percepirli, ed avvisarli. Con un tocco di zampa o di muso sulle gambe e sulle mani dei padroni il cane riesce ad attirare la sua attenzione e a dirigerlo verso la fonte rumorosa. Così facendo, la routine di una persona sorda è semplificata dal supporto di un compagno fedele.
In realtà gli hearing dogs non sono solo addestrati per portare il padrone verso il suono giusto, ma sono in grado di riconoscere anche un particolare suono e di allontanare il padrone dal punto in cui il rumore si è generato, per tenerlo distante da una situazione di possibile pericolo, come ad esempio un allarme antincendio. Ciò dimostra che questi cani hanno un ruolo fondamentale anche per quanto concerne la sicurezza della persona che assistono, e non solo per semplificargli le attività di ogni giorno.
In più, agli hearing dogs non importa nulla del pedigree: qualsiasi cane può diventare un impeccabile hearing dog, a prescindere dalla taglia o dalla razza. Sono ovviamente necessari alcuni requisiti però. Quali? Beh, tanta vitalità, sensibilità, intelligenza, peli e amore! Vi sembra poco?!
“Sono attratto da chi fa belle foto” ha detto Jay Mather, Premio Pulitzer per la fotografia. E gli scatti del fotografo Gary Albertson lo hanno davvero attirato. Nulla di strano in effetti, se non fosse che Gary Albertson è cieco. “Sono attratto da chi fa belle foto” ha detto Jay Mather “e anche dalle belle storie. E quella di Albertson andava raccontata”.
Gary Albertson ha come fedele compagna di vita una macchina fotografica. Lo accompagna sempre, è il suo miglior alleato per perseguire il suo sogno, quello di diventare un fotografo affermato. Fino a quando, nel 2010, i medici diagnosticano ad Albertson una rara forma di glaucoma che in poco tempo lo ha portato a perdere quasi completamente la vista. Per Albertson è un colpo durissimo, un dramma che tenta di spiegare a chi gli sta intorno con queste parole: “È come aver voglia di abbracciare forte qualcuno ma accorgersi all’improvviso di aver le braccia tagliate e non poterlo fare”.
Si infrange così il sogno di Gary, che progressivamente inizia a rifiutare tutto, e soprattutto la sua macchina fotografica. All’amico di sempre, Dennis, confida di non avere più alcun interesse per niente di ciò che lo circonda, meno che mai per la fotografia: la sua visione ormai periferica e limitata non è sufficiente per poter utilizzare un obiettivo fotografico, e non riesce più ad immortalare la natura, il suo soggetto preferito.
È proprio grazie all’aiuto paziente e al sostegno di Dennis, giorno dopo giorno, che Albertson si lascia convincere a ritentare. Gary deve ripensarsi fotografo, deve cambiare prospettiva e non affidarsi più ai suoi occhi, ma ad altro. “Non potevo più usare la vista e così ho cominciato a pensare che le mie orecchie dovessero sostituirsi ai miei occhi”.
Adesso è il suono dell’acqua, il fruscio delle foglie e del vento che trasportano Albertson durante i suoi scatti. Si lascia ispirare dai rumori della natura per comporre le fotografie, immagini meravigliose che finiscono per attirare l’attenzione di Jay Mather, con il quale inizia una collaborazione.
Dopo mesi di scatti, il lavoro dei due fotografi è diventato protagonista di una mostra fotografica presso il The Casey Eye Institute dell’Oregon Health&Science University, che ha ottenuto un successo entusiasmante.
“Bisogna saper utilizzare tutti i sensi. Anche quando si scatta una fotografia. Certo il senso della vista è fondamentale, ma non si deve rinunciare a usare anche tutti gli altri. Bisogna solo scoprirli”. E Albertson ha saputo davvero come fare.